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Sogni e segni Scrivo queste righe immersa nei colori, nelle forme, nelle voci delle cento galline di Francesca. Le ho viste nascere, crescere, di grandezza e di numero, dalle sue grandi mani sapienti, mentre continuavo a mettere in forma le mie idee di creta da allieva, modestamente, creativamente. A quest’ora la comitiva è quasi al completo: eccitate per la partenza imminente, ciacolano senza posa tra loro, aspettandoil momento di raccontare a noi le loro storie, di ascoltare le nostre, quando passeggeremo tra loro a Matera, nello spazio antico che le ospiterà. Le galline di Francesca rimandano a un lungo passato di cultura rurale, sofferta e manchevole, ma tenace e unica. Ci ricordano, dunque che la iper, post, post post modernità che ci sembra di aver conquistato e risolto, per attuarsi realmente non deve sciogliere i legami con quel passato, al contrario, deve provarsi in tutti i modi per poter reinterpretarlo in modo coerente e innovativo ma profondamente rispettoso. Il grande e faticoso progetto di Francesca mi piace per questo. Le sue galline testimoniano quell’antica e degna provenienza ma la esprimono con tutta la leggerezza, varietà, inquietudine del presente. Il loro sguardo ironico, leggermente strabico, esercita costantemente il dubbio come forma estrema, la più pregevole e attuale, intelligenza del pensiero, in tutte le sue declinazioni. Ne abbiamo bisogno proprio per poter affrontare la nostra condizione. Da loro possiamo imparare. A personaggi come loro non si addicono per nulla luoghi comuni tradizionalmente associati ad aspetti negativi del genere femminile, come ‘Avere le zampe di gallina’ per indicare i primi segni di maturità del volto, ‘Essere una gallina’, per dire di una donna la sua ipotetica stupidità. Queste cento galline sono oltre tutto questo, completamente: sono fantasiose, irrisolte, imprudenti, sagge nella loro ricerca di senso. A Matera, dicevo sopra, vanno per raccontare ciascuna una storia fatta di materia viva, colori, segni e disegni. Ciascuna ne racconta una, la sua, e centomila (magari milioni), quelle di ciascuna persona che le galline incontra, osserva, sfiora. Galline e persone s’incontrano tra vicoli e slarghi di una città di pietra, simbolo vivo e continuamente rinnovato di una memoria antica, dolorosa, possente, necessaria. In quei vicoli e slarghi, la memoria di pietra della città si anima della memoria individuale e collettiva di ciascuna storia, di tutte le storie, non soltanto attraverso la traccia scritta che ciascun visitatore, ciascuna visitatrice è invitato/a a lasciare su biancheria di bucato, che viene via via stesa su una corda rossa che cuce le finestre del vicolo fino alla piazzetta. L’installazione, dunque, non è soltanto un colorato e complesso artefatto artistico che invita all’allegria e al sogno ad occhi aperti, è anche un evento collettivo che chiama ciascuno alla partecipazione attiva tramite il gesto che, con uno strumento come un grande pennarello, traccia un segno scritto su un supporto bianco, questa volta non un foglio ma proprio un indumento intimo. Intimo come un pensiero appena pensato che diventa pubblico attraverso la sua trascrizione (d’altra parte, nella sua accezione interpersonale, non si usa l’espressione ‘i panni sporchi si lavano in famiglia’?). Qui infatti, al termine dell’incontro con la processione delle galline, allegre comari di Matera, ciascuno può lasciare una traccia, nella più vasta accezione possibile di scrittura. Scrittura, infatti, prima di essere testo e discorso compiuto, è segno e disegno, in una gamma ricchissima che va dall’invenzione al segno esistente: dal pittogramma antico all’ideogramma odierno, ai grafemi di uno dei tanti alfabeti possibili. Le origini della scrittura restano, nonostante tutto, nonostante la sua lunga, comlessa e assai documentata storia, multiformi e un po’ misteriose: forse gesto scaramantico e rituale, forse segno numerico per usi commerciali; probabilmente entrambe. Sistemi diversi e diversamente articolati di iscrizione hanno accompagnato i processi di ominazione, lo sviluppo delle attività manuali e intellettuali degli ominidi e delle varie tipologie di ‘homo’, connesso all’organizzazione delle prime comunità umane. Comunità preistoriche del Paleolitico, in particolare Superiore (tra 40.000 e 10.000 anni fa), con forme grafiche internazionali, prima su rocce poi sulle ‘pareti’ delle caverne che facevano loro da abitazioni, hanno lascato pitture e iscrizioni con strumenti di osso, avorio, pietre levigate; complicati sistemi mnemotecnica, a base di nodi su cordicelle, sono stati messi al punto, ad esempio presso gli Inca, oppure su diversi materiali vegetali strisce di corteccia, pezzi di canna, fili di erba in Nuova Caledonia, in Cina. In Val camonica, i Camuni, suoi abitanti, hanno lasciato moltissime iscrizioni litiche intorno all’ 8000 a.C., che testimoniano la messa a punto di forme grafiche standardizzate per motivi internazionalmente comunicativi. La scrittura, in sistemi logografici, sillabici e alfabetici, fino alla messa a punto dell’alfabeto greco (intorno alla metà del VIII secolo a.C.), dal quale deriva quello latino che ci appartiene e con il quale è scritto anche il testo che state leggendo, si è sviluppata e diffusa nei vari territori de Vicino Oriente Antico, attraversati dai grandi fiumi, il Nilo, da una parte, il Tigri e l’Eufrate, dall’altra, dall’Egitto alla Mesopotamia; dunque, nel complcato, dinamico, multiforme, movimento di comunità culture, conflitti,economie agricole, forme statuali e religiose via via più strutturate e articolate, che ha vissuto in quelle aree, di cui si hanno testimonianze ricorrenti a partire dal quinto millennio a.C. Lunghi e complessi studi di natura sia archeologica sia linguistica, documentano l’uso internazionale di sistemi grafici e attività commerciali: a questo proposito c’è chia ha parlato di ‘nascita in un magazzino’. L’organizzazione e il mantenimento dello stato si basava, prima di tutto, sull’archiviazione dei dati contabili, all’inizio effettuato utilizzando ‘bullae’ di argilla, sfere cave nelle quali venivano inseriti cilindretti dello stesso materiale, dello stesso numero delle merci che accompagnavano. Bullae e tavolette di argilla incise a caratteri cuneiformi hanno costituito un vero e proprio deposito, bancario, nel tempio di Uruk, l’attuale Warka in Iraq, intorno al 3500 a.C. L’argilla, materia umida e malleabile donata dai fiumi, non posso non notarlo, è la componente base della creta, la materia di cui sono fatte le cento galline di Francesca. L’abbondanza, plasticità e facilità d’uso dell’argilla, ha contribuito all’origine storica e tecnica della scrittura che conosciamo per fini commerciali, giuridici, religiosi molte di più se diverse tra loro ono state le funzioni di essa, i supporti e gli strumenti con i quali si è espressa. Scritture come rebus, formule magiche, segreti e crittografie, ornamento del corpo e di oggetti rituali e regali, scrittura dovunque e comunque. Esprimono, in ogni caso, l’esigenza di lasciare traccia, di segnare un luogo, una superficie, in quanto componenti di una comunità di persone. Giocare a lasciare traccia scritta di sé con colori e pennelli, la più libera e creativa che si desideri, significa testimoniare fisicamente la propria lontana origine e appartenenza al genere umano nelle sue più diverse e molteplici declinazioni. Questo è il significato più intimo e profondo dell’incontro con le galline di Francesca. Gesti particolarmente importanti nella cultura contemporanea, costantemente in bilico sul filo di un eterno presente, vissuto nella velocità in tempo reale della comunicazione digitale. Ornella Martini |
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